101°-LA CONQUISTA DELLA PRODIGIOSA SPADA E LA LIBERAZIONE DI ASTORIDE

Oramai il firmamento non era più punteggiato di stelle e di altri astri luminosi. Anche la pallida luna aveva smesso di farsi scorgere nel cielo, mentre era intenta a solcare l'immenso spazio celeste, come una navicella sperduta nello sconfinato oceano. Solamente un chiarore apparente sembrava provenire dagli orizzonti oltremontani. Tra gli albori della nascente luce, si potevano scorgere due giovani dalle fiere sembianze, nei quali il defunto Babbomeo non avrebbe fatto alcuna fatica a ravvisare i suoi due intrepidi allievi. Essi adesso, procedendo pensosi e guardinghi fra due costoni, battevano con passo deciso un sentiero che attraversava la deserta vallata. La quale faceva da incomparabile scenario al Castello Maledetto, che torreggiava superbo in lontananza. Dall'alba al tramonto, l'ombra del grande re Koluor vagava per il cammino di ronda dell'enorme fortezza turrita. Per cui ogni tanto volgeva il suo sguardo mesto e sconcertato verso il paesaggio offerto dalla valle. Esso gli si dispiegava davanti suggestivo ed ineffabile, ma soprattutto indimenticabile. Senz’altro un motivo doveva pur esserci, se lo sventurato sovrano era intento a guardare verso quella parte. Forse cercava di avvistarvi qualcosa che gli era stato caro in vita ed aveva continuato ad amare anche dopo la sua morte. Invece egli poteva solo contemplarvi gli inimitabili spettacoli della natura, i quali impreziosivano in maniera stupenda l'intera vallata. Inoltre, essi davano a chi transitava per quel luogo spopolato la sensazione di stare al cospetto di un quadro artistico, colmo di fervida fantasia e permeato di dolce armonia.

Il sole era sorto da poco nel nitido cielo azzurrino, quando Iveonte e Francide avevano già percorso metà di quell'ampia valle, dove le tante bellezze naturali da loro ammirate non smettevano di stupirli. Allora, accelerando di più il passo, i due giovani arrivarono ben presto presso la base del monte, la quale rappresentava la loro prima tappa. Il modesto rilievo inizialmente formava un corpo unico fino a trecento metri di altitudine; ma poi veniva a biforcarsi, dando così origine a due colli dalla china agevole ed accessibile. A dire il vero, i loro cocuzzoli apparivano molto strani, poiché si inarcavano e si aggettavano sopra la fortezza quasi ad angolo retto. Forse, in una epoca molto remota, prima ancora che il castello venisse edificato, le due rocciose arcate aggettanti dovevano risultare congiunte, formando così un enorme arco a strapiombo. La cui parte centrale, che aveva smesso di esistere non da poco, un tempo doveva essere sovrastante a quella parte del monte sulla quale in seguito era stato costruito l'enorme bastione.

Iveonte e Francide, al fine di guadagnare altro tempo, si affrettarono a salire su per il pendio della montagna. Per fare più presto, però, evitarono le diverse curve a gomito del sentiero principale, ossia quello che conduceva fino alla biforcazione. Così, in pochi minuti, essi si trovarono davanti al portone del fantastico castello, il quale, almeno in apparenza, sembrava ostacolarne l'accesso. Una volta che furono davanti ad esso, i due amici fraterni prima si entusiasmarono tantissimo e poi, in preda all’ansia di entrare nella misteriosa fortezza, provarono a farlo aprire con una energica spinta. Ma si erano appena preparati a fare pressione sulle sue imposte, per cui non le avevano ancora sfiorate, allorché essi le videro spalancarsi da sole sotto i loro occhi. Ritraendosi poi verso l’interno del castello, le due parti metalliche fecero udire un fastidioso cigolio di cardini arrugginiti. Comunque, solo dopo che il portone si fu spalancato, senza che nessuno lo avesse spinto neppure con un minimo sforzo, Iveonte diede di piglio alla spada. Lanciando poi di qua e di là delle occhiate circospette, balzò nella sua parte interna e si ritrovò subito nell’atrio della fortezza. Alla stessa maniera, si comportò Francide, il quale lo seguiva ad un passo, manifestando anch'egli molta cautela. Ma una volta avvenuto il loro ingresso nel castello, i due impavidi giovani iniziarono ad avanzare nei suoi vari ambienti, mostrandosi abbastanza accorti nel prevenire oppure nell'eludere eventuali insidie e tranelli.

Procedendo dopo con circospezione, Iveonte impugnava la spada, che gli aveva lasciato il suo insuperabile maestro; invece Francide reggeva tra le mani un nodoso bastone. Egli lo aveva raccolto lungo il sentiero da loro percorso, durante l'attraversamento della vallata. Entrambi accolsero con disinvoltura l'apertura automatica delle numerose porte che si andavano spalancando davanti a loro, al fine di indirizzarli alla spada dello straordinario re Koluor. Infatti, si aprivano soltanto quelle che conducevano al mausoleo del defunto sovrano; mentre le altre restavano ermeticamente chiuse. In quel modo, le porte facilitavano il raggiungimento della prodigiosa spada a quanti, aspirando al suo possesso, si cimentavano nell'impresa senza mostrare alcun timore. Infine, grazie allo spalancamento anche dell'ultima porta, i due temerari giovani raggiunsero la grande sala rotonda, dove stava situato lo stupendo sepolcro del re Koluor. Esso, oltre a concedere ricetto alle spoglie mortali dell'illustre sovrano, custodiva la sua miracolosa Spada dell'Invincibilità.

I due grandi amici avevano appena dato uno sguardo all'elsa dell'arma prodigiosa, la quale ne rappresentava la sola parte visibile, allorché videro richiudersi dietro di loro la porta, che poco prima gli aveva permesso il libero accesso al sepolcro senza alcuna difficoltà. Simultaneamente, i due allievi del defunto Babbomeo videro altresì aprirsi le restanti porte che erano rimaste chiuse fino a quel momento. Queste ultime consentivano l'accesso alla sala, ma non alle persone che aspiravano alla magica arma; bensì a degli esseri orribili, i quali erano nudi ed armati di grosse clave, che non smettevano di agitare nell'aria. Si trattava di biechi colossi, che portavano lunghi capelli sciolti sulle spalle ed avevano il corpo ricoperto da una folta peluria grigiastra. Inoltre, i loro volti apparivano terribilmente ostili, mentre dai loro occhi uscivano delle espressioni agghiaccianti. Essi erano esseri da considerarsi appartenenti più ai primati che alla specie umana: tanto era rozza la loro corporatura ed animalesco il loro aspetto! Quanto alle loro sagome, le quali mostravano un atteggiamento incredibilmente terrifico, esse li rendevano così insopportabili alla vista, da instillare parecchio nervosismo in chi era costretto a restare al loro cospetto.

Allora Iveonte, sentendosi infastidito a causa della presenza di simili esseri, subito avvertì un impulso irrefrenabile a scagliarsi contro di loro, essendo desideroso di farne una grande carneficina. Ma l'amico Francide fece appena in tempo a trattenerlo e a non farlo partire in quarta nella sua reazione. Dimostrandosi più giudizioso di lui in quella temibile circostanza, egli lo prevenne con questi saggi consigli:

«Ehi, Iveonte, non farti venire alcun colpo di testa, proprio in questo momento, siccome lo considero del tutto inopportuno! Non ti conviene ignorare che, se non ci impossessiamo prima della prodigiosa spada, non possiamo assolutamente comprometterci con quei terribili bestioni. Quindi, occupiamoci innanzitutto dell’arma fatata; soltanto dopo baderemo ad affrontarli e a dargli la lezione che già vorresti impartirgli adesso, senza perdere un attimo di tempo!»

Prendendo in seria considerazione il consiglio dell'amico, per il momento, Iveonte trattenne la sua furia e controllò al massimo la sua impazienza. Allora egli non diede più retta a quei brutti scimmioni, i quali, dopo averli accerchiati, continuavano a stringersi sempre di più intorno a loro, avanzando però lentamente. Anzi, dopo avere approvato il suo intervento e condiviso il suo consiglio, egli disse all’amico:

«Francide, hai ragione a parlare così, poiché in questo momento conviene pensare unicamente alla prodigiosa arma. Anche perché dopo avremo tutto il tempo per cimentarci con quegli antipaticissimi esemplari! Quindi, mentre io li tengo a bada con la mia spada, cercando di tenerli a debita distanza, tu dammi il tuo bastone ed inizia la prova per primo. Speriamo che gli dèi generosi ci assistano e ci proteggano, considerato che ne abbiamo sul serio un grandissimo bisogno!»

Francide, dopo aver consegnato al compagno il suo bastone, saltò sopra il sepolcro del re Koluor ed afferrò l'impugnatura della spada, la cui lama era interamente immersa in un durissimo granito. Inizialmente la spada si lasciò estrarre fino a metà, la qual cosa fece retrocedere i selvaggi di alcuni passi. Oltre ad indietreggiare, essi emisero pure un ululo prolungato, il quale senza dubbio denotava insieme sia la loro stizza che la loro collera, mostrandosi esse molto palesi. In seguito, però, i successivi sforzi del giovane si rivelarono insufficienti e vani. Egli, intanto che la sua fronte grondava di sudore, non desisteva dai suoi numerosi sforzi e tentava di estirpare a ogni costo l’arma dal sepolcro. La quale, dopo il cedimento iniziale, aveva smesso di favorirlo. Al contrario, essa si era data a contrapporsi irremovibilmente ai suoi sforzi inusitati. Così alla fine, essendosi reso conto che ogni suo tentativo risultava frustrato dalla spada portentosa, essendo evidente che non era lui il suo preferito, Francide rinunciò all’impossibile impresa in modo definitivo. Per il giovane avvilito, quelli furono dei momenti bruttissimi, poiché gli arrecarono molta mortificazione. Ma erano risultati anche degli attimi drammatici, per essersi svolti in un clima non affatto piacevole, il quale aveva conosciuto esclusivamente delusioni, fremiti e smarrimenti. A dirla in breve, egli aveva vissuto l'identico dramma, del quale il loro Babbomeo già aveva fatto l'amara esperienza molti anni prima.

In seguito all'evidente fallimento di Francide, gli abitatori del castello gioirono enormemente. Essi, seguitando ad agitare con ostinazione le loro clave, ripresero a fare restringere il loro cerchio mortale intorno ai due amici, che non apparivano ancora del tutto rinunciatari. All'inverso, continuando ad essere ottimisti, si mostravano intenzionati ad andare fino in fondo nella conquista della spada del defunto sovrano suicida. Da parte sua, pur avendo visto l’amico Francide fallire, Iveonte non si avvilì neppure un poco. Egli era convinto che l'arma immersa nel sepolcro non gli avrebbe opposto alcuna resistenza. Nel suo intimo avvertiva che era lui il prescelto della Spada dell'Invincibilità, stando anche alle rivelazioni che gli aveva fatto Babbomeo alcuni giorni prima. Per questo, anche con l'intento di infondere una buona dose di coraggio nell'animo dell'amico e tenerlo così più sereno, mentre gli porgeva la spada e il bastone, lo rassicurò con queste parole:

«Non ti far prendere dal panico, Francide, dal momento che la nostra partita è ancora aperta! Vedrai che la situazione si capovolgerà e la prodigiosa arma finirà tra poco per essere nelle mie mani. Adesso non mi resta che porgerti la mia spada e il tuo pezzo di ramo, siccome ho da condurre a termine l'opera da te iniziata. Anzi, puoi già buttar via questa specie di bastone perché tra poco smetterà di servirti. Intanto che mi darò a compiere positivamente l’impresa che non ti ha favorito, tu bada a controllare quei facinorosi selvaggi, tenendoli a rispettosa distanza!»

Finito di parlare in quella maniera, Iveonte eseguì un grande balzo, che lo fece trovare all'istante sopra il mausoleo. Allora, senza indugio, egli afferrò l'impugnatura della fatidica spada, la quale rimaneva sempre nel medesimo posto, ma ora era per metà fuori del mausoleo. Inoltre, essa sembrava conservare la stessa inflessibile rigidità, che prima aveva manifestato al demoralizzato suo compagno, opponendosi ai suoi immani sforzi che cercavano di estirparla. Questa volta, però, non appena il forte giovane ne ebbe impugnato con veemenza la splendente elsa, il mausoleo del re Koluor, per un prodigio straordinario, fu visto fendersi perfettamente a metà. Per cui la Spada dell'Invincibilità restò nelle mani di colui che già l’aveva afferrata rigidamente con il proprio pugno. L’arma, come tutti i presenti si erano resi conto, dimostrandogli la sua solidarietà, volle risparmiare ad Iveonte, nell’atto di impossessarsene, perfino lo sforzo più lieve. Comportandosi in quel modo, essa intese annunciargli che, da quel giorno in avanti, ci sarebbero stati fra loro due un'ottima intesa e un eccellente affiatamento. A quell’evento prodigioso, nei due giovani amici le cose cambiarono in modo radicale, poiché un clima di entusiasmo fu visto subentrare alla precedente atmosfera di trepidazione. Inoltre, essendo stati beneficiati da tale portento, i due intrepidi giovani si sentirono come rianimati da capo a piedi; mentre i loro spiriti già vagheggiavano imprese avventurose di ogni tipo. Esso, però, sostenendo e favoreggiando entrambi in quella che era apparsa una impresa irrealizzabile, creò parecchio scompiglio e tanto sgomento fra i selvaggi che erano presenti, allo scopo di ostacolarne la riuscita.

I Chironti, i quali erano gli orribili esseri che infestavano la sala, accolsero il miracoloso evento con un umore opposto. Dopo una pausa iniziale di silenzio e di incertezza, che la scioccante esibizione della spada aveva causato in tutti loro, essi si diedero ad un brontolio rabbioso, il quale si andò facendo nella sala sempre più intenso e discorde. Dai gesti concitati e contrapposti dei selvaggi, trasparivano le loro intenzioni contrastanti e se ne intuivano anche le ragioni. Se li si studiavano bene, si capiva senza sforzo che una parte di loro voleva assalire i due giovani vittoriosi dell'impresa ed attaccarli con brutalità, senza alcuno indugio. Invece un'altra parte degli stessi riteneva che fosse meglio ritirarsi immediatamente dalla sala per sottrarsi alla furia dei due agilissimi avversari, la quale sarebbe sopraggiunta di lì a poco. Secondo quelli che optavano per il ritiro, essa, oltre a non farsi attendere a lungo, sarebbe pure risultata tremenda ed efficace nei loro confronti. Difatti la loro ira, esprimendosi sotto l'egida della prodigiosa arma del leggendario re Koluor, li avrebbe travolti ed annientati senza difficoltà alcuna, facendoli così cessare di esistere per sempre.

Avendo inteso ogni cosa, Iveonte cercò di infondere terrore nel loro animo e di scoraggiarli dall'attaccarli. Perciò, volendo raggiungere tale obiettivo al più presto, egli si mise ad agitare nell'aria la scintillante lama dell'imbattibile spada. A tali movimenti del giovane, essa emetteva dei guizzi lampeggianti che raggiungevano la turba dei Chironti. Allora essi, che già avevano decretato di sferrare il loro attacco con rabbia belluina, smisero di prepararsi alla loro lotta all'ultimo sangue, essendo intenzionati a svignarsela alla svelta. Quella loro nuova decisione era dovuta al fatto che essi non reggevano agli abbacinanti guizzi provenienti dall'illustre arma. Infatti, il barbaglio di scintille e lo zigzag di livida luce, che ne erano scaturiti, avevano provocato molto fastidio ai loro occhi ed una specie di stordimento. Così, lasciandovi un profondo e cupo silenzio, i selvaggi si ritirarono a gran carriera dalla sala circolare, la quale per molti secoli era stata la depositaria del famoso mausoleo.


Andati via i Chironti, Iveonte e Francide, anziché darsi ad inseguirli, restarono in quella sala ad ammirare, anzi ad idolatrare, la prodigiosa spada del re Koluor. Mentre la contemplavano, andavano in visibilio e ne venivano affascinati in modo inimmaginabile, fino a provare per l'arma una sentita venerazione. Essi non si erano mai visti in preda ad un giubilo così grande, il quale, in quella evenienza particolare, si manifestava in loro incontenibile! Poco dopo, intanto che si congratulavano l'uno con l'altro della bella impresa compiuta, tutto a un tratto, i due coraggiosi giovani videro la grande sala abbuiarsi; mentre un tedio incalzante andava penetrando in loro inavvertitamente. Quando infine il buio finì per dominare in ogni angolo di quel luogo, sembrò che essi fossero diventati due autentici scimuniti. Perciò, pur restando in piedi, si mostravano incuranti di ciò che stava accadendo intorno a loro. Inoltre, il loro stato di incoscienza gli faceva assumere un tale atteggiamento, da farli somigliare a due fredde statue prive di vita. Quella tenebra malefica, all'improvviso, era intervenuta a soggiogarli mediante una sostanza ad alto potere narcotico. Perciò adesso essa non cessava di trasmettere in loro una certa ebetaggine. Infine, rendendoli privi della facoltà di intendere e di volere, venne a privarli anche di ogni decisione. Allora, essendo in balia di tale effetto nocivo, Iveonte e Francide invano andavano agitando nel buio le loro braccia possenti, allo scopo di liberarsi da quella forza invisibile e caliginosa, che li andava deprimendo e fiaccando totalmente. Le loro gambe, che non si mostravano più disposte a reggere il peso del loro corpo, oscillavano e li facevano barcollare, come se fossero due ubriachi. In quel momento, però, per loro crollare poteva significare la grande catastrofe, ossia la morte!

Dunque, già si andavano esaurendo tutte le forze nei due giovani, i quali apparivano stremati in modo pauroso, allorché una voce altisonante venne a scuoterli e a trarli fuori da quella narcosi stregata. Essa, dopo averli rianimati e rinvigoriti per buona parte, si affrettò ad esprimersi a loro due con forza, facendogli il seguente discorso:

"Attenti, o strenui conquistatori dell'invincibile spada! Non fatevi sorprendere e debilitare dalla malia! Bisogna uscire presto da questo diabolico castello, poiché esso è tutto un crogiolo di tranelli, di insidie e di incantesimi. A ogni modo, prima di lasciare questa fortezza maledetta, fate il possibile per liberare un giovane della vostra età, il quale è qui tenuto prigioniero da moltissimi anni. Egli si trova rinchiuso e incatenato in una putrida cella. Domani, se non lo liberate quest'oggi, dovrà essere ucciso, poiché l'ingordo Cotiuk ha deciso di nutrirsi con le sue carni. Costui è il capo degli Scinnes, i quali sono i veri padroni del Castello Maledetto, oltre ad essere gli amici di vecchia data dei Chironti. Dovete sapere che una volta ci fu un'aspra contesa fra queste due ignobili razze sul possesso del castello. Entrambe, reputandosi assurdamente i diretti discendenti dei Logunti, che furono gli abitatori di questa fortezza, volevano arrogarsi il diritto di abitarla.

Quindi, già si stava venendo alle mani, quando Cotiuk e Saleim, decisero di evitare ogni spargimento di sangue. Essi, come capi delle due tribù, dopo una lunga e difficile trattativa, addivennero alle transazioni seguenti: mentre gli Scinnes avrebbero dovuto occupare la sovrastante parte aerea del Castello Maledetto, ossia quella che dal pianterreno si estendeva fino ai piani alti; i Chironti, da parte loro, essendo albini, avrebbero dovuto abitare la sua parte sotterranea. A questi ultimi, inoltre, sarebbe spettata anche l'indisturbata salvaguardia della spada del re Koluor, difendendola da quelli che avessero osato impadronirsene. Per questo, ogni volta che si fosse presentato qualche aspirante all'imbattibile arma, gli Scinnes avrebbero dovuto farsi da parte e tenersi nascosti nella parte alta del castello. Così gli avrebbero permesso un agevole transito fino alla spada del grande re. Ai soli Chironti, dopo il suo fallimento, sarebbe toccato il piacere di seviziarlo in modo inumano.

Dopo che vi ho riferito ogni cosa sui due popoli che abitano questa enorme fortezza, dovete evitare di perdere altro tempo. Anzi, occorre recuperarlo a tutti i costi, cercando di allontanarvi prima possibile da questo Castello Maledetto. Naturalmente, dopo aver tirato fuori dalla sua cella lo sventurato giovane, a cui vi ho già accennato poco fa!"

Alle esortazioni del misterioso essere, Iveonte e Francide si destarono sia dal loro stato soporifero sia dal loro totale afflosciamento. Si riaccese nel loro animo lo scomparso ardimento di prima, il quale li fece sentire di nuovo abbastanza sicuri di sé e coscienti di quanto stava accadendo intorno a loro. Soltanto così i due giovani ritornavano ad essere ancora una volta agilissimi e fortissimi. Convinti che quelle parole misteriose erano state proferite dalla loro venerabile spada, Iveonte e Francide si lanciarono alla ricerca dello sventurato detenuto. Oramai erano entrambi ansiosi di tirarlo fuori dalla cella dov'era tenuto rinchiuso da anni; anzi, non vedevano l'ora di esprimergli la loro piena solidarietà e di fargli dono della loro sincera amicizia. Essi erano molto felici di liberarlo, poiché glielo aveva raccomandato la loro preziosa spada.

Attraversati alcuni anditi bui, che si dilungavano nella parte sotterranea del castello, infine i due amici di vecchia data, con l'aiuto della spada fatata, giunsero in fondo ad un corridoio alquanto malconcio. La luce vi scarseggiava, poiché lo illuminava la sola tremula fiamma di un moccolo di fiaccola. Quello era il reparto dove stava la cella che teneva rinchiuso lo sconosciuto prigioniero fra le sue malsane pareti. Essi la individuarono senza difficoltà, siccome era l'unica ad essere piantonata da una sentinella, la quale in verità appariva mezza addormentata. Così, una volta che le si furono avvicinati con il minimo rumore, i due amici non le diedero nemmeno il tempo di farle articolare una sola sillaba, al fine di dare l'allarme. Tempestandola di pugni poderosi, l'atterrarono in un battibaleno. Pochi istanti dopo, essi le staccarono il mazzo di chiavi che le pendeva dalla cinghia di cuoio ed infilarono quella giusta nella toppa della porta di ferro, facendovela girare più volte. Mentre poi le mandate della serratura facevano udire i loro scatti, sia l’uno che l’altro si mostravano impazienti di liberare da quella topaia colui che stava per diventare il loro inseparabile compagno.

L'orrore di quell'ammuffito e graveolente ambiente dissuadeva dal restarvi un attimo di più. Perciò, aperta la porta alla lesta, i due amici irruppero in gran fretta nell'interno dove dominava il buio, anche se non era pesto. Fu in quel modo che Iveonte e Francide si ritrovarono davanti ad una figura massiccia ed erculea, a cui erano state incatenate mani e piedi. Allora, in un attimo, essi si accostarono al giovane e cominciarono a liberarlo dalle pesanti catene, le quali si tenevano strette ai suoi polsi e alle sue caviglie. Nell’alleggerire il prigioniero di quegli anelli arrugginiti ed agganciati fra di loro, i due amici facevano una loro considerazione. Le catene lo avvinghiavano, proprio come facevano le radici avventizie dell'edera che si abbarbicavano al proprio sostegno. Mentre poi si sbrigavano a liberare il corpo del loro coetaneo dalle pesanti ferraglie, essi videro brillare sul volto del recluso un sorriso di gioia ineffabile ed una raggiante commozione. In verità, egli appariva molto provato in viso ed inasprito dalle ingenti sventure. Le quali lo avevano perseguitato e bersagliato durante la sua lunga esistenza trascorsa dentro quell'assurdo letamaio. Comunque, l’incontro all'istante spinse i tre giovani a trasmettersi a vicenda un profondo affetto, quello che si poteva rinvenire esclusivamente tra amici veraci, senza né falsità né ipocrisia.

Dopo esserci stata la liberazione del recluso dalle pesanti catene, ci furono prima le reciproche presentazioni senza troppe formalità. Subito dopo Iveonte, Francide ed Astoride, che era il nome del giovane appena liberato, si precipitarono verso l'esterno della cella. I due amici, oltre che rivelare i propri nomi al giovane sconosciuto, non poterono scambiarsi con lui alcun'altra notizia che li riguardava. In quegli istanti, per niente adatti per le formalità, a tutti e tre premeva soltanto trovarsi fuori dal Castello Maledetto. Perciò, siccome lo desideravano più di ogni altra cosa, essi cercarono di uscirne con la massima sollecitudine, però senza tralasciare la dovuta prudenza. Secondo loro, essa li avrebbe tenuti lontani da brutte sorprese, le quali ci sarebbero state senz’altro, se ne avessero fatto a meno. Invece ugualmente la loro uscita sarebbe avvenuta attraverso mille difficoltà, che già erano in agguato dietro ogni angolo del castello e li stavano aspettando a braccia aperte. Ma esse non sarebbero state le sole a riceverli, poiché i tre giovani stavano per essere accolti anche da fatti che sarebbero risultati loro assai graditi.